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Viviamo in un’epoca in cui i mass media ci danno una versione selezionata delle notizie: ci raccontano cosa è “importante” in base alla rilevanza che scelgono di dare. La guerra in Ucraina, per esempio, è sotto i riflettori, discussa e dibattuta ovunque. Ma in altre parti del mondo, esistono guerre di serie b e la narrazione cambia o, peggio, sparisce. La colonizzazione della Palestina, che sappiamo essere un genocidio, è raccontata come un “conflitto” o “guerra”. In Sudan, intanto, una guerra civile dilaga nel silenzio mediatico più totale: milioni di persone stanno soffrendo la fame, e la loro tragedia occupa forse la settima pagina dei quotidiani, quando va bene.*

Immagine da https://www.ilsussidiario.net/news/caos-sudan-non-solo-tigray-e-siccita-ora-il-golpe-puo-incendiare-darfour-e-ciad/2526594/

E allora come possiamo davvero conoscere quello che succede nel mondo senza i filtri della tv o dei giornali? Qui entrano in gioco i social media. Personalmente, conosco queste storie perché seguo pagine che si occupano di raccontare realtà africane, che trattano della Palestina, o che svelano notizie senza la patina dei titoli mainstream. Nel mio feed, queste pagine hanno lo stesso spazio di tutte le altre e posso scegliere di dare loro la stessa importanza delle questioni più vicine a noi.

La responsabilità di creare un feed che racconti il Mondo

Da una parte, abbiamo la responsabilità personale di costruirci un feed che ci dia una visione ampia e sfaccettata. Ognuno di noi ha la possibilità di scegliere chi seguire, dando voce a storie che altrimenti non avremmo mai sentito, dare importanza a quelle guerre di serie b che non devono rimanere di serie b. Non è solo una questione di informarsi: è una scelta di come vediamo il mondo. E non si tratta di abbandonare le questioni vicine, ma di fare spazio anche alle storie “di serie B” – quelle che per i media tradizionali sembrano contare meno.

Dall’altra, esistono i creator, persone che sui social hanno una piattaforma, un seguito e una voce. Non serve avere milioni di follower: anche con 5.000 persone si può iniziare una conversazione. Io, ad esempio, arrivo da una città enorme come Milano ma ora vivo in un paesino di 600 abitanti e ho comunque più di 12.000 follower su Instagram. In confronto ai grandi numeri sembra poco, ma pensiamoci: 12.000 persone sono una piccola città! E alcune di queste persone mi hanno ringraziato per aver parlato di Palestina, perché fino a quel momento non ne sapevano molto.

I creator come portavoce di casi “minori” (che tanto minori non sono)

Per questo credo che ogni creator abbia una responsabilità enorme: far conoscere anche questioni meno visibili. Sì, è normale che il pubblico si senta più vicino a situazioni che sono fisicamente o socialmente più vicine – è scientificamente provato che ci è più facile provare empatia per qualcosa che riconosciamo come “simile” o che sentiamo vicino a noi per cultura, lingua o condizioni di vita. Ma nei social abbiamo il potere di fare di più, di ampliare il nostro campo di visione e dare voce a chi non ce l’ha.

Il bello dei social, a differenza dei media tradizionali, è che possiamo davvero decidere cosa conta e cosa no. Siamo noi a creare l’informazione, a mettere al centro questioni che, altrove, restano ai margini. E possiamo farlo in maniera volontaria, trovando spazio per tutte quelle storie che non sentiamo vicine, ma che sono ugualmente importanti. È qui che sta la vera forza dei social media: sono fatti da noi, per noi e con noi. Ogni like, ogni follow e ogni condivisione è una scelta, una presa di posizione, e anche un atto di giustizia verso chi è spesso invisibile.

*tutto ciò che so del Sudan lo devo a da Esserenero, Nigrizia e Cecilia Sala.

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